Ripensare il concetto di “Sostegno”: dall’Insegnante all’Educatore.

Intervista alla Prof.ssa Vincenza Palmieri

Fino ad oggi, il termine “sostegno” è stato associato alla figura dell’insegnante che si occupasse dei disabili – o diversamente abili, come più correttamente si è concordato di dire oggi. Ma c’è un nuovo punto di vista, non solo più corretto ma decisamente più completo, di cui apprendiamo colloquiando con la Prof.ssa Vincenza Palmieri, Presidente dell’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare.

 

Prof.ssa Palmieri, perché oggi non ci si può limitare più a parlare di “Insegnante di sostegno”?

Io credo che si debba fare un passaggio di consapevolezza ed iniziare a parlare di “Educatore” di sostegno. Perché i bambini portatori di una qualunque disabilità – seria, accertata e certificata come tale – non sono solo degli scolari o degli studenti: a scuola vanno 4-6 ore al giorno, ma hanno 24 ore di tempo nella loro giornata per poter giocare, incontrare, relazionarsi, crescere…  e così i loro genitori e familiari.

 

Qual è stato fino ad ora il ruolo dell’insegnante di sostegno?

Questa figura si è occupata per molti anni di sostenere l’insegnante di classe, più che i bambini. Spesso era pensata come “l’insegnante del corridoio”. Oggi noi puntiamo sul fatto che l’insegnante di sostegno sia, invece, altamente specializzato, con competenze superiori a quelle dell’insegnante di classe: insomma, tutt’altro che un insegnante “di serie B”, come di solito è stato ritenuto. Non si capisce come mai, infatti, anche nello stesso nucleo classe, questa figura – per quanto sia considerata di sostegno proprio alla classe e non solo al singolo bambino – sia stata spesso trattata alla stregua di un insegnante complementare.

 

Il dibattito è ancora in corso

Si, ma noi puntiamo, come dicevo, ad un superamento di questo concetto. Parlo, infatti di “educatore”, cioè un professionista formato su tutto ciò che possa essere utile alla relazione, all’aiuto, al supporto. Un sostegno che si esplichi anche nelle altre 18 ore del giorno e quindi non solo a favore dell’insegnante, ma dell’intera famiglia. Una figura che possa essere pensata anche per i giardini, i parchi, le colonie estive, i centri ludici, le comunità, i baby parking, le aree attrezzate dei grandi supermercati e così via. Perché una famiglia con un bambino diversamente abile non può andare in un Centro e lasciare il proprio bambino con un handicap libero di giocare nello stesso spazio degli e con gli altri bambini?

 

È  un concetto indiscutibilmente nuovo ma anche impegnativo

In realtà è un’idea molto semplice: quella di un educatore in grado di badare a TUTTI i bambini, anche nei contesti informali come le palestre (c’è un caso recente di un bambino che non è stato accettato perché disabile… ), nelle piscine, nei villaggi turistici… Se alcuni bambini hanno una difficoltà che non consente loro la piena autonomia, perché queste strutture non possono garantire un servizio completo proprio a chi è più bisognoso di integrazione? Perché non pensare ad una competenza del genere come competenza di base anche per istruttori ed animatori?

L’integrazione è un processo culturale a 360 gradi. Se noi la limitiamo soltanto a scuola, stiamo parlando di una percentuale minima della vita di un bambino.

 

Ci sono anche situazioni di difficoltà che richiedono competenze molto specifiche

Certo. Ma, per esempio, un bambino non udente ha bisogno soprattutto di mediazione linguistica. Perché non si garantisce anche questo tipo di servizio? Perché l’integrazione deve farsi solo a scuola? L’integrazione deve essere agita da tutta la società, non solo dal compagno di classe o di banco!

 

In sostanza, come intende lei l’integrazione?

L’integrazione non è un percorso che il diversamente abile deve fare verso “gli abili”, ma anzi dovrebbe essere basata sulla reciprocità, sull’andare uno – ognuno – verso l’altro, nelle due direzioni.

 

Voi, come Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare, cosa avete fatto per promuovere questo nuovo approccio culturale?

Noi, da tempo, abbiamo un progetto formativo completo per gli insegnanti ma anche per gli educatori di sostegno. Ed è un progetto ambizioso, non solo perché rovescia il punto di vista del sostegno, ma anche perché trova un impiego enorme in moltissimi – tutti! – gli ambiti della vita quotidiana. A partire dalla scuola pubblica, certo. Così come nelle scuole private, che molti genitori con figli disabili preferiscono, con l’idea che in queste strutture ci sia un maggior controllo rispetto, per esempio, al bullismo; ma si scontrano, poi, con strutture non in grado di accogliere i loro figli.

Dunque una formazione dalla duplice spendibilità, che consente sia di lavorare nel pubblico, così come prevede la riforma della scuola, sia di qualificarsi come figure professionali richiestissime anche nell’ambito della scuola privata.

 

E poi, come accennava, in ogni altro ambito

Esatto: ovunque si voglia e si debba consentire l’accoglienza di TUTTI i bambini.  Quindi nei consultori familiari, negli ospedali, nei villaggi turistici, nei supermercati, centri commerciali, aeroporti, comunità, giardini, centri comunali… ovunque.

Certamente in primis nei pre- e post- scuola, ma comunque a sostegno quotidiano per le famiglia: supporto specialistico il pomeriggio, nei giorni festivi, nei mesi estivi … eccetera.

Un modo nuovo di intendere non solo la figura di sostegno, dunque, ma l’integrazione in generale. Ed un modo per aiutare i giovani a trovare lavoro – con questa nuova, ricercata professionalità – così come per fornire stimoli innovativi a quanti già lavorano ed intendano migliorare la qualità della vita di chi ne ha bisogno.

 

Lei chiama “Diversi Talenti” i bambini  con difficoltà o veri e propri handicap

Proprio così. E ovunque ci sia un Talento, comunque esso si esprima, non deve ricevere un “Sostegno/Stampella”, ma uno skateboard, un motore stellare per elevarsi ad ogni possibile Altezza!

Intervista ad una Pedagogista Familiare

Abbiamo incontrato Sabrina Di Giacomo, Laureata in Filosofia, ora Pedagogista Familiare, recentemente diplomata presso l’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare. Quello che vogliamo comprendere, al di là del significato e dell’essenza di questa figura professionale, è l’impatto di crescita che tale approccio ha avuto per e sulla persona.

Come sei arrivata a conoscere la professione del Pedagogista Familiare ed in particolare l’INPEF?

Ho scoperto l’INPEF e la sua intensa attività di Formazione e Tutela dei Diritti Umani nel 2012, navigando sul web in cerca di un Master che mi convincesse, che sentissi nelle mie corde. La mia ricerca era iniziata già nel 2010, avevo valutato diversi percorsi formativi nella mia Regione, la Puglia, ma non mi avevano convinto, li ritenevo troppo teorici e poco pratici. Dopo aver conseguito una laurea in Filosofia ero in cerca di uno spunto pratico, per rendere fruibili i contenuti che mi avevano entusiasmato durante il percorso Universitario e che, molto spesso, non risultavano accessibili a tutti. Stavo già lavorando nel campo della formazione ma avevo voglia di ampliare le mie conoscenze. Quando ho letto le attività dell’INPEF mi sono sentita coinvolta e ho contattato l’Istituto, ho avuto un colloquio con la Prof.ssa Palmieri che mi ha chiarito ogni dubbio e così, a ottobre del 2012 sono partita per Roma per prendere parte alla prima lezione del Master in Pedagogia Familiare.

Che percorso hai fatto?

Il percorso che ho fatto all’INPEF si può definire un vero e proprio viaggio alla scoperta di me stessa. Quello che ho imparato in questi due anni mi ha permesso di rivedere, con nuovi occhi , anche il mio percorso scolastico e di comprendere alcune difficoltà che avevo anch’io e che, soprattutto al liceo, mi hanno creato un senso di inadeguatezza perché non riuscivo a conseguire i risultati sperati in greco e latino, nonostante il mio impegno e la mia passione per le materie. Grazie al Master in Pedagogia Familiare ho potuto utilizzare al meglio le mie competenze artistiche per esplorare nuovi modi per insegnare. Si può dire che ho fatto un percorso bidirezionale: da una parte, sono riuscita a compenetrare il disagio scolastico partendo dalla mia esperienza, e dall’altra mi sono spinta verso l’esterno acquisendo informazioni utili per lavorare con ragazzi/e di tutte le fasce d’età. All’INPEF si lavora anche su se stessi e questo è importante.

Quali sono i punti di forza dell’INPEF?

Sono diversi i punti di forza dell’INPEF, è un vero mix di Competenza, Esperienza e Passione.Tutti i docenti portano in aula la loro esperienza concreta e questo è un grandissimo punto di forza perché è proprio questa concretezza che manca all’uscita dell’Università; credo che la separazione tra vita Accademica e Lavoro sul campo sia ancora presente nella formazione Universitaria. L’INPEF, invece, è una realtà al passo coi tempi perché opera a stretto contatto con la società liquida in cui viviamo, è quindi “attrezzata alla navigazione”. Un altro punto di forza è l’accoglienza e lo scambio che viene favorito. Infatti ho avuto la possibilità di relazionarmi con colleghi e colleghe provenienti da tutta Italia con i quali siamo ancora in contatto per continui scambi di idee e per condividere progetti.

In cosa pensi di essere cresciuta?

Sicuramente sono cresciuta professionalmente perché ho acquisito competenze specifiche e spendibili ma credo di aver trovato anche una chiave di lettura che, a distanza di tempo, mi ha permesso di affrontare vecchi traumi “scolastici” che in alcuni momenti della mia vita hanno inciso moltissimo, rallentando il percorso universitario a causa della mania di perfezione indotta dall’Insicurezza. Ho ripensato ad alcune insegnati del liceo che ci sottoponevano a subdole umiliazioni, sicuramente in buona fede o perché anche loro vittime degli stessi metodi. Comprendendo sono riuscita a perdonare per essere diversa, abbracciando una scelta importante: quella di esplorare metodi creativi e accessibili per tutte le diverse intelligenze. L’apprendimento deve essere affascinante, deve indurre ad approfondire, deve divertire e rendere gioiosi. È questo ciò che voglio donare ai miei studenti e alle persone che si affideranno a me.

Cosa intendi fare di queste competenze acquisite, nel presente/futuro?

Ho già iniziato ad operare nel campo. Quest’anno, infatti, ho seguito due ragazzi ottenendo risultati davvero soddisfacenti Sono molto soddisfatta del lavoro che ho avviato e intendo organizzarlo sempre meglio, per diffondere nel mio territorio ciò che ho appreso in questi anni di formazione all’INPEF. Credo molto in questo progetto e condivido l’approccio dell’INPEF ai disturbi dell’Apprendimento, un approccio più pedagogico che diagnostico, che tiene conto dei differenti modi di accedere al sapere. Mi interessa tantissimo sviluppare la tematica del Diritto all’Apprendimento e sensibilizzare su questo aspetto, le Istituzioni locali. Per il momento opero attraverso la mia Associazione Culturale Contaminazioni che avevo fondato nel 2008, ci occupavamo della promozione dell’Arte in tutte le sue forme espressive ma nello Statuto avevamo anche inserito le attività di formazione e di promozione sociale. Inseguito sicuramente mi piacerebbe aprire una sede INPEF in Puglia, per le famiglie. Per il momento sto pensando anche di continuare a formarmi, ancora all’INPEF, attraverso il Master “SCUOLA NAZIONALE PERITALE, per CTP e CTU” per offrire un servizio sempre più efficace ed efficiente.

Ricordi una lezione particolarmente significativa per te?

Le lezioni più entusiasmanti e significative per me sono state quelle con la Prof.ssa Gravela che mi hanno permesso di scoprire un modo nuovo di fare scuola, ci siamo divertite a costruire gli strumenti didattici; in particolare la Lectio Magistralis “Comprensione, Comunicazione, Emozioni” con la Prof.ssa Palmieri è stata una lezione che ci ha permesso di esplorare la qualità delle relazioni che costruiamo. In un percorso di Pedagogia Familiare Comprendere le emozioni e riuscire a comunicarle è fondamentale. Il percorso nella sua interezza è stato un arricchimento incredibile. Sono molto soddisfatta della mia scelta e delle amicizie che sono nate in Itinere. Ho conosciuto persone straordinarie che mi hanno donato le loro storie. Non posso dimenticare una delle prime lezioni in cui ci siamo sottoposti al Genogramma con la Professoressa Izzo e abbiamo parlato delle nostre storie personali, delle nostre famiglie; tutto è avvenuto con naturalezza e spontaneità e nei momenti di commozione il gruppo si è mostrato solidale e compatto. In genere chi sceglie una professione di aiuto lo fa perché vuole comprendere meglio se stesso e l’altro ci offre uno specchio nel quale riconoscerci.