Cosimo Rega: “Il teatro porta il detenuto alla consapevolezza di quello che è veramente, e ad amarsi”

In occasione del FORUM INPEF “Il valore della Giustizia in Italia: tra prove oggettive e prove opinabili”, assisteremo ad una suggestiva e amara performance dal titolo “Anime Prigioniere” tenuta da alcuni protagonisti della Compagnia teatrale “Stabile Assai”, fondata negli anni Ottanta dal Dr. Antonio Turco, formata da detenuti, ex detenuti, operatori carcerari e volontari, e divenuta con il tempo la più importante espressione di drammaturgia penitenziaria italiana, con spettacoli dedicati al tema della legalità. Tra gli attori, Cosimo Rega, ex boss della camorra, oggi ergastolano, oltre 40 anni di carcere alle spalle, che nel teatro ha trovato la sua più potente arma di riscatto personale e sociale, e che per l’occasione leggerà anche alcuni passi tratti dal testo “I Malamente” di Vincenza Palmieri.

– Rega, cos’ha rappresentato per Lei il teatro, che percorso ha innescato?

“Innanzitutto, quando parliamo di teatro in carcere dovremmo avere un’idea chiara di cosa è il carcere. Perché il carcere purtroppo è un contenitore di forti tensioni, di sbarre, di corridoi, di rumori, a cui il corpo deve abituarsi e da cui il corpo vuole difendersi. In carcere, poi, non si parla mai del presente: perché il presente è quello, è il carcere, e fa paura. Anche solo nominarlo fa paura. Dovremmo fare in modo che il carcere sia luogo di riflessione e recupero del condannato, perché il carcere è fatto innanzitutto di umanità. Io stesso oggi mi sento di difendere anche la polizia penitenziaria, quella stessa che negli anni passati mi ha massacrato di botte: oggi posso dire che sono vittime anche loro. Occorre fare molta attenzione perché questo sistema è pericolosissimo, poiché porta il detenuto non alla riflessione e ad affrontare il male commesso, ma a maturare la consapevolezza di essere vittima perché subisce; ed è così che poi lo diventa davvero, vittima. E quando viene scarcerato, ha in sé così tanto odio, rabbia e crudeltà perché ha vissuto in un’anormalità che per lui è diventata normalità. Da qui, dal capire cos’è il carcere, si può comprendere l’importanza che il teatro può avere, e che può diventare ulteriormente prezioso se lo si abbina anche a uno studio personale. Il teatro arricchisce la mente del condannato, non lo fa ‘vegetare’; nell’interpretare certi personaggi, poi, accade il confronto, il confronto con quello che si sta rappresentando ed anche il confronto con se stessi. Il teatro, se fatto con disciplina, serietà e professionalità – dunque non come strumento dell’apparire (di cui spesso è vittima il detenuto…) – porta il detenuto alla consapevolezza di quello che veramente è, ma lo porta anche a conoscere se stesso, ad amarsi, perché il confronto con l’altro lo porta anche a questo. E poi, cosa non meno importante, schiarisce i suoi orizzonti e i suoi mondi offuscati, perché consente di mostrare un mondo sconosciuto che possiamo interpretare in tanti modi. Affidarsi alla grande letteratura delle volte non fa male, il fatto di adattarla a noi è però quello che fa la differenza, perché non siamo attori che hanno fatto l’accademia, ma persone che recitano col cuore. Scrivere sul carcere, poi, è un’altra cosa ancora, in ogni pezzo ci si mette una parte di letteratura e un’altra parte di lavoro personale. Insomma, il teatro è un gioco che poi alla fine tanto gioco non è: è una ricerca, dove ci si pone sempre delle domande, e forse è questo che ci rende liberi a volte… E io mi sono attaccato all’arte e alla cultura proprio perché sul palco mi sento libero o forse – come a volte mi dico – magari è solo una menzogna con cui si riesce ad acquietare l’animo. Ma mi ci sono attaccato ugualmente con tutto me stesso”. 

– Il 27 settembre prenderà parte, con una toccante performance, al FORUM sul valore della Giustizia organizzato dall’INPEF: come vive questa partecipazione? E che significato hanno per Lei oggi le parole libertà, legalità, giustizia?

“È una cosa grande, io l’affronto con quella emozione ma anche con quella consapevolezza e trasparenza con cui mai dimentico chi sono stato e quello che ho commesso. Questi sono momenti per me di grande gratificazione e anche di grande orgoglio personale, ma li vivo sempre con quella consapevolezza di essere stato un uomo che ha creato orfani e vedove e che oggi cerca di dare un suo contributo, sperando di esserne capace anche e soprattutto grazie al confronto con le persone che gli stanno mostrando affetto, amore e comprensione. In un certo senso, tutto questo mi fa sentire ancora di più il peso di quello che ho fatto e di quello che faccio: mi chiamano gli studenti che mi chiedono delle interviste per le loro tesi, e io lo faccio volentieri, anzi spero fortemente di dare un segnale nel segno di quella Giustizia riparativa di cui spesso si sente parlare. Gestire la libertà è molto complicato per chi ha vissuto per oltre 40 anni tra le mura: ecco perché per me la responsabilità di fare queste cose diventa ancora più grande. Ed è questa presa di coscienza che, oggi, mi ha reso libero nel cervello, nella testa: oggi sono un uomo che non farebbe mai più quello che ha fatto, oggi sono un uomo libero”.

Cosimo Rega

Cosimo Rega impegnato nella scrittura e sul set